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Oggi voglio addentrarmi in un mondo a me piuttosto sconosciuto. Mi riferisco ai “big data” e alla professione che, pare, sia la più richiesta del nostro secolo, ovvero quella del “Data scientist”. La mia prima fonte è l’articolo dell’Harvard Business Review di Ottobre, intitolato “Data scientist: il lavoro più interessante del XXI secolo“.

Desidero approfondire innanzitutto il concetto di big data, che scopro essere i dati e le informazioni destrutturate che provengono dal mondo digitale (come, ad esempio, i social network). Le aziende oggi sono invase da questa mole di informazioni che non riescono a decifrare, ma che potrebbero rivelarsi importantissime per le loro scelte strategiche in merito ai prodotti, ai processi, alle decisioni, al business, ecc.

Ebbene, i data scientist sono proprio i professionisti in grado di “ricavare risposte a interrogativi strategici”, individuando questi dati, assemblandoli e convertendoli in forme analizzabili.

Che conoscenze e competenze devono possedere? Gli autori ci dicono che, dal punto di vista tecnico, devono sapere scrivere un codice e avere solide basi di matematica, statistica e informatica… ma non è abbastanza. E’ importante infatti che siano anche persone creative ed equipaggiate del cosiddetto “pensiero associativo”, ovvero capaci di analizzare e formulare ipotesi attraverso l’uso dell’analogia (in grado, ad esempio, di scoprire il funzionamento di un fenomeno nel campo dell’economia, conoscendone uno assimilabile nel campo della biologia). Le fonti li descrivono come individui autonomi, ma anche desiderosi di essere affiancati e operare in sinergia alla direzione aziendale.

A tutt’oggi ce ne sono molto pochi in circolazione: problema per le aziende, vantaggio per tutti coloro che sentono di possedere le qualità sopraccitate.

Attenzione: l’articolo si riferisce al contesto statunitense e alle grandi multinazionali; chissà se vale lo stesso per il nostro Bel paese.