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Certo, Robert Propst, creatore dell’open space, non avrebbe mai immaginato che la sua idea sarebbe stata oggetto di tanto clamore “negativo”. Dotato delle migliori intenzioni, aveva pensato ad uno spazio lavorativo aperto, libero e dinamico, arredato con scrivanie e pannelli bassi (giusto per garantire il minimo di privacy necessaria).

Un assetto di questo tipo avrebbe dovuto sollecitare e facilitare la comunicazione e lo scambio di idee tra i dipendenti e impedirne il mutuo isolamento. Il che, in condizioni normali (spazi ampi e numero di lavoratori contenuto) può avere ed ha i suoi effetti positivi.

Tuttavia manager e datori di lavoro, per lo più americani, hanno sin dal principio distorto il modello originale, inserendo nel medesimo spazio lavorativo il doppio dei dipendenti! Il risultato è stato un open space a “cubicoli”, ove rumore e confusione regnano incontrastati.

È a tale proposito che si inserisce un recente studio australiano, svolto alla Queensland University of Technology di Brisbane dal dott. Vinesh Oommen e dai suoi colleghi.

Gli studiosi, analizzando tutte le ricerche già effettuate in passato sugli effetti degli open space sulla salute dei lavoratori, hanno ricavato che nel 90% dei casi, le condizioni di lavoro in un ufficio “aperto” causano un non trascurabile aumento di stress, aggressività, livello di pressione arteriosa e rischio di contrarre malattie contagiose.

Proviamo a pensare perché. Colleghi che parlano al telefono e tra di loro (alcuni urlano), telefoni e cellulari che squillano in continuazione, fotocopiatrici che stampano…No, non deve essere per nulla semplice. Senza considerare la propria resa, in termini di quantità, qualità ed efficienza lavorativa.

Per noi che, invece, lavoriamo in open space “europei” sarà proprio la stessa cosa?!