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Anche in Project Group abbiamo l’abitudine di festeggiare il nostro compleanno tra colleghi.. ma c’è uno di noi, l’ing. Elisabetta Sabaini, che quest’anno ha scelto di festeggiare niente di meno che a New York City, città nella quale ha lavorato e nella quale ritorna appena può. La incontriamo dopo poche ore dal suo rientro e le chiediamo di raccontarci di sé e di ciò che la lega a quella meravigliosa città.

“Questa canzone è stata la colonna sonora del mio tempo nella Grande Mela quando vi abitavo. Racchiude in pochi versi quello che questa fantastica città realmente condensa nel suo animo, nelle sue strade rumorose e talvolta sporche e soprattutto nelle persone che la abitano, rendendola tanto unica e universale. La città dove sono stati ambientati tantissimi film, dove si respira la immanente sensazione che lì “tutto sia possibile”. La chiamano “Vibe”, che sta per “Vibration”, qualcosa di impalpabile ma che si respira, si sente e vibra nell’aria, e che permette ai sogni di tramutarsi in realtà. Mi succede tutte le volte che ci vado, e lo racconto al mio ritorno.
E’ per me come un “injection” di forza, vitalità e positività! Adesso che sono atterrata da 2 giorni, sono ancora adrenalinica, e il jet-lag in realtà per me è un modo per stemperare tutta l’energia che quella città, le sue luci, la gente e i quadratini di cielo che si vedono attraverso i contorni dei “rooftop” dei grattacieli, mi ha lasciato come eredità e come droga, tanto da desiderarne una nuova, immediata, boccata d’aria il prima possibile. Per me che ci ho vissuto 4 anni, è un po’ come il mal d’Africa per chi è stato nella savana e nei deserti del paese di Mandela.  A NYC ci sono arrivata per vie insolite, ma quando sono partita, molto ho lasciato e tanto credevo di trovare. Ho raccolto tanto, assai di più.
Ok la lingua inglese, una delle principali ragioni per cui sono partita, un lavoro luccicante nel mondo della moda, un’esperienza professionale ed internazionale in US. “ALL ACCOMPLISHED”! Ma quello che è restato davvero è molto più importante, più profondo. Ho imparato a comunicare in una lingua non mia, con interlocutori che a loro volta usavano una lingua non loro, come tramite, per veicolare i pensieri e le idee formulati negli schemi della loro cultura d’origine. Ho capito davvero quanto le barriere culturali possano ostacolare la riuscita di un progetto e di una relazione di qualsiasi forma. Di cosa voglia davvero dire LAVORARE IN TEAM – nella maggior parte delle volte Multietnico, Multiculturale e Multidislocato nel pianeta. Dove le distanze non solo sono geografiche e temporali ma spesso, di visione, di abitudine e di cultura. Ho compreso e difeso il Genio Italiano, che in US ci viene riconosciuto senza remore alcune, ritenendo che sia solo nostra la capacità di trovare, sempre e comunque, soluzioni creative e “Out of the Box”. Ho imparato la Tolleranza, quella Vera, fatta di rispetto del Diverso in tutte le sue accezioni. Di Pazienza, di Attesa. Di profusione, di Aiuto in nome della Solidarietà e del Cameratismo di coloro che insieme vivono la stessa esperienza, e dove l’unico piano comune, l’unica cosa che davvero li unisce, è l’essere diversi. Un paradosso per certi versi, un ossimoro per altri, ma l’unico punto di contatto reale, quello che da radici all’Amicizia.”