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L’immagine Worldwide city-to-city connections è di Chris Harrison, il cui lavoro si basa sulla rappresentazione grafica dei flussi di dati sul web.
Se avessi un’azienda non mi porrei il problema di consentire o proibire facebook. Cercherei di controllarlo. Non per megalomania. Serve un modo diverso di porre un quesito mal posto. Il “capo” che proibisce facebook adotta la soluzione immediata senza andare al cuore del problema. Come se, ad esempio, vendere di più o produrre meglio, fosse solo una questione di tempi dedicati e di quantità di km percorsi.
Andiamo con ordine: l’impiegato medio che perde letteralmente ore su facebook lo fa per noia. Il problema ha quindi una radice organizzativa: il social network (almeno nella prima fase) riempie il tempo in cui non si ha nulla da fare. Non sottovalutiamo l’evoluzione dell’uso: ricadere in una frequentazione compulsiva di chat, blog e social network non è così infrequente. Ma accade strada facendo.
Proibire resta una forte tentazione. E concettualmente non è neppure del tutto errato. L’azienda si trova a dover governare una situazione che l’ha preceduta e spiazzata. E quella dei social network è una complessità difficilmente riducibile, tante sono le sollecitazioni a cui l’utente è sottoposto, al punto da generare, come detto, rischi di dipendenza.
Il problema tuttavia resta solo un rischio, e non una opportunità, finchè resta un tabù parlabile solo in termini di proibizione. Qui si può intervenire con un modello partecipativo (a cui le stesse reti sociali forniscono un quadro metodo-tecnologico completo ed interessante).
Che fare? Dire che il cambiamento va assecondato e non osteggiato può sembrare, di fronte ad una questione così chiara, troppo filosofico. Ma credo che la filosofia in questo caso sia dispersiva tanto quanto la strategia di enti pubblici che aprono pagine su facebook e poi ne osteggiano la frequentazione ai dipendenti.
La risposta, ma non è questa la sede per un approfondimento, è identità, partecipazione, condivisione, gestione del cambiamento. E capire che non sempre, laddove ci sono questi presupposti, la rigida divisione fra gli orari del lavoro e quelli della vita privata, rappresenta un valore aggiunto.